Politica della cura o cura della politica? di Letizia Paolozzi 

La cura non è una bacchetta magica, dispensatrice di gesti altruistici, buoni, generosi. D’altronde, nel nuovo femminismo degli anni Settanta, circolavano forti sospetti. Badate alle pretese che indirizzate a un solo sesso, il nostro! Maneggiate con attenzione quel termine che gronda dedizione-oblatività, peraltro da offrire gratuitamente sull’altare della famiglia, figli, delle creature vulnerabili. Non impegnatevi per amore, senza niente in cambio.


Nulla sarà più come prima”? La risposta discenderà dalle strategie assunte individualmente e collettivamente per opporsi all’epidemia. Nel frattempo, Covid-19 ha funzionato da lente d’ingrandimento per i rapporti all’interno delle fabbriche, particolarmente squilibrati dove è diffuso il precariato; per la violenza maschile sulle donne; per la vecchiaia vilipesa.

All’improvviso, lo sfruttamento e la negazione di diritti per i lavoratori stranieri, la condizione dei detenuti, le lacerazioni della società, i tagli alla sanità pubblica, con un corteo di danni e disfunzioni, ha messo in evidenza i contorni di queste figure.

Quali strumenti sono capaci di fronteggiare questo scenario inedito?
Non dipende da noi se mancano i tamponi, i reagenti, la possibilità di tracciamento e le mascherine. La Protezione Civile se n’è venuta fuori che, fabbricate a casa, funzionano alla perfezione!

E non dipende da noi se gli aiuti alle famiglie in difficoltà, ai commercianti, agli artigiani, ai lavoratori autonomi, agli irregolari, alle imprese non arrivano: il governo è lento mentre il virus corre.
Se “la realtà non può essere questa” (i due fratelli Bennato) dovremmo tirare fuori delle idee. Una è la cura (delle relazioni, della fragilità, del corpo confinato, del bambino costretto tra quattro mura). Cura non neutra ma che assuma le differenze.

Perché, se sei nata di sesso femminile e chiusa in casa (come tutti), un compagno violento ti avrà a disposizione per martoriarti; se adolescente abiti nei Quartieri spagnoli di Napoli, soffocherai con la famiglia (generalmente composta da quattro persone) in 40 mq; se bracciante senza permesso di soggiorno (al quale bracciante alcune componenti del governo intenderebbero proporre non la dignità della regolamentazione ma un contratto a termine della durata di maturazione dei pomodori), ti conviene sapere che il Comitato tecnico scientifico ha sottolineato “il potenziale rischio rappresentato da una comunità di persone che vivono in condizioni igienico-ambientali degradate, senza alcuna possibilità di azioni di prevenzione”.

Ecco. La cura non è una bacchetta magica, dispensatrice di gesti altruistici, buoni, generosi. D’altronde, nel nuovo femminismo degli anni Settanta, circolavano forti sospetti. Badate alle pretese che indirizzate a un solo sesso, il nostro! Maneggiate con attenzione quel termine che gronda dedizione-oblatività, peraltro da offrire gratuitamente sull’altare della famiglia, figli, delle creature vulnerabili. Non impegnatevi per amore, senza niente in cambio.

Ne abbiamo riparlato – le anglosassoni con grossi tomi accademici – quando (nel testo del gruppo del mercoledì “La cura del vivere”) ci si è squadernata davanti agli occhi l’importanza, appunto, di un lavoro per il divenire della vita nel suo intreccio di relazioni.

Ognuna di noi è un insieme di affetto e potere, bisogno e desiderio, necessità e piacere. Impossibile scegliere, separando il luogo della produzione da quello della riproduzione (che ha poco in comune con la supplenza dello stato sociale azzoppato).

Adesso, nella tragedia del Coronavirus, si riacchiappa il filo della cura. Peccato che agli uomini presi dal linguaggio bellico e inviluppati nelle pastoie burocratiche, interessi poco (tanto, ci sono le donne a rimediare). Bambini, anziani, casa, ambiente, animali, giardino, vincoli, sodalizi, unioni e disunioni sono roba da femmine.
Quanto ai politici, invece di saggiare le potenzialità di questa postura relazionale, si misurano con le guerre per bande, ingaggiano polemiche poco comprensibili (come quella sul Mes) o competizioni narcisistiche.

Dunque, citare la cura senza aggiungere che la si considera il grimaldello per forzare un ordine, per rivedere l’agenda delle priorità (come e cosa si produce; dignità degli individui; ambiente), può trasformarla in una melassa nella quale le donne rinunciano ai loro desideri per il bene della famiglia; la fine di tanti e tante nelle Case di riposo appare vincolata a una terribile sfortuna, una disfunzione verificatasi nel sistema sanitario.

Meglio quindi lasciar perdere la cura? Niente affatto, purché, quando la nominiamo, non sia omesso il conflitto in grado di scuotere i paradigmi interpretativi che, guarda caso, privilegiano sempre gli stessi. In effetti, il Coronavirus non ci ha resi eguali; anzi, le diseguaglianze si sono acuite.

Nel tentativo di uscire dai cieli dell’astrazione, provo a spiegarmi. Gli scioperi per la sicurezza in fabbrica hanno spinto gli imprenditori a firmare accordi con il sindacato azienda per azienda sulla sicurezza: mascherine, guanti, distanziamento, sanificazione. Traduzione del contenuto della cura: il “come”.

La discussione dura, combattiva, sull’eventuale reclusione dei cittadini anziani “per il loro bene” ha spostato l’attenzione su una gestione sociale e culturale della vecchiaia che tende a squalificarla in quanto improduttiva.
Da aggiungere che dai tagli alla Sanità (che hanno divelto in venti anni i paletti fondamentali della Riforma sanitaria del ’78, costituiti dalla medicina di base e del territorio, accentrando tutto nell’Ospedale “azienda”) è discesa la mancanza di posti in terapia intensiva costringendo in questa emergenza a selezionare per età e patologie pregresse.

Un altro modello di cura potrei individuarlo nei gruppi di studio di “Ecologia politica” che indagano l’eventuale legame tra inquinamento atmosferico e diffusione del virus e i procedimenti che stanno alla base degli allevamenti intensivi.

Ora, è vero che sfruttamento, violenza, mortificazione sono “tendenze presenti nella società già prima del Coronavirus” (Michel Houellebecq sul “Corriere della Sera” del 5 maggio) ma, invece di sollecitare queste tendenze, la cura, se praticata in modo critico, potrebbe inceppare il negativo dei nostri rapporti e allora sì “nulla sarà più come prima”.

Letizia Paolozzi

da: Oltre il capitale

14 giugno 2020