I figli non si pagano di Alessandra Bocchetti

“I figli non si pagano” immagino che ve la ricordiate tutte questa frase. È la frase che, nella commedia scritta dal grande Eduardo de Filippo, Filomena Marturano rivolge a Domenico Soriano, ridandogli indietro il denaro che una notte aveva ricevuto da lui per una sua “prestazione”. Filomena è una donna che lavora in un bordello dove Domenico va spesso per festeggiare l’esito di qualche buon affare o per stare in allegria con gli amici.


A quella frase Filomena ne aggiunge subito un’altra e dice “io quella sera ti ho voluto bene veramente”. E’ la spiegazione che lei dà per questa restituzione, sono anni che conserva quel denaro. La cosa interessante per noi è che I soldi vengono ridati come se il bene, l’ aver voluto bene, abbia il potere di cancellare, di vanificare il contratto. Là dove c’è il bene, Eduardo ci dice, i contratti perdono valore, non valgono più. Con quella frase di Filomena entriamo nella dimensione affettiva e abbandoniamo il mondo del commercio, della compravendita, della contrattazione, dei diritti, perché il bene è al di sopra di tutto questo e viene prima di tutto, è da lì infatti che tutti noi prendiamo senso.

Filomena Marturano è un capolavoro centrato tutto sull’amore della madre, amore che ha il potere di superare l’idea di giustizia e di verità per entrare in una dimensione superiore.
Tutti sappiamo che sono guai se l’amore della madre manca, la vita sarà molto dura per chi non l’ha ricevuto. E l’amore della madre non è così scontato come ci raccontano, lei ci può accogliere a braccia aperte o con la faccia girata dall’altra parte. Per questo io penso che sia disgraziato, alla lettera senza grazia, colui o colei che nasce senza il suo desiderio.

L’accoglienza è molto importante. Ma l’accoglienza non comincia quando veniamo al mondo, quando ci tirano “fuori”, quando gli altri ci fanno festa,. L’accoglienza comincia prima, comincia da subito, comincia da “dentro”. Di questo “dentro” però se ne sa molto poco, perché le donne non lo hanno mai veramente raccontato. C’è stato molto pudore per una ragione fondamentale, perché questo “dentro” è troppo distante da quello che la società e la cultura a cui apparteniamo si aspetta e prescrive ad una donna in attesa di un bambino, così la verità diventa difficilmente dicibile.

Comunemente si dice “dolce attesa”, così si vuole immaginare una futura madre: tutta immersa nel tepore di un’attesa serena. Per lei sono prescritte felicità e serenità.
Le donne hanno raccontato molto raramente questa esperienza e le poche che l’ hanno fatto non sono state troppo credute

Un corpo che si fa due è un campo di battaglia. Il tempo della gravidanza è tempo insieme di felicità e terrore, di benedizioni e di maledizioni, di voglia di accogliere e voglia di fuggire, di bei sogni e brutti sogni, di desideri e pentimenti e di tante lacrime segrete. Un corpo che si fa due, si fa due per sempre, è un’esperienza violenta, fortissima. Se c’è una differenza tra le donne è quella di essere passate attraverso quest’esperienza o no, ma c’è da dire che, poiché tutte le donne sono potenzialmente madri, la distanza può essere stemperata.
Invece è proprio questa esperienza che segna la differenza delle donne dagli uomini, differenza incolmabile.

Agli uomini questa esperienza non è stata concessa dalla natura, sentire crescere un corpo dentro di sé, diventare carnalmente due. Considero questa esperienza un grande privilegio, che mi fa felice di essere nata donna, anche se questo privilegio, nel corso della storia, noi donne l’abbiamo pagato assai duramente. Infatti in una società patriarcale, in cui uno dei principi ordinatori è la violenza, gli uomini hanno potuto vivere nell’illusione di poter possedere quei corpi capaci di tanta meraviglia e di tanta ricchezza. Ancora oggi molti uomini fantasticano il corpo delle donne come un corpo da possedere. Uscire da questa cultura è un vero e proprio lavoro molto difficile e lento che donne e uomini, in questo scorcio di storia, si trovano a dover fare insieme.

Ma in questo percorso c’è una differenza: noi donne abbiamo poco da perdere e molto da guadagnare, guadagniamo in libertà, ma anche gli uomini guadagnano in libertà se solo lo capissero, perché è decisamente più libera una società senza serve né servi. Tuttavia questo processo per loro avviene necessariamente attraverso la perdita di quei privilegi, previlegi ritenuti tali, di cui hanno goduto per secoli. Per gli uomini quindi è più difficile questa libertà, per alcuni addirittura è talmente insopportabile da arrivare a uccidere. Quella violenza di cui purtroppo leggiamo spesso sui giornali, sappiamo che non è un segno di amore né di troppo amore, come viene spesso detto, sappiamo anche che non né è un segno di follia né un gesto di un mostro, si fa presto a dare la colpa ai mostri. No, quella violenza che abbiamo chiamato femminicidio è un tentativo estremo di ristabilire un ordine ormai perduto. Sapere con chiarezza di cosa si tratta è importante per venire a capo di questo terribile fenomeno. Per noi donne poi è importante per imparare a calcolare i rischi, per imparare a dire di no in tempo.

Tornando alla gravidanza che è il nostro tema, mi dico: forse proprio perché noi donne abbiamo raccontato poco quel campo di battaglia che riguarda testa e cuore e corpo tutto, fino alla più piccola venuzza, che si è potuto immaginare, pensare il tempo della gravidanza come un vuoto, una sospensione quasi fisica, isolabile nel tempo perché apparentemente ha un principio e una fine. “Nel buio del grembo materno” dice Eschilo, e proprio per quel buio Eschilo cancella il valore della madre e inaugura così il tempo del padre che ancora resiste nella nostra cultura. Mi dico che si sia dovuto pensare proprio così per accettare l’idea che un corpo di donna, in forza di un contratto, possa ospitare e dare vita a un ovolo fecondato di estranei o possa accogliere lo sperma di uno sconosciuto e farsi crescere dentro un bambino e poi tirarlo fuori e , se è fortunata, dimenticarlo, perché dimenticare sarebbe la cosa migliore.

Cosa si chiede ad una donna che si presta a questa pratica? Si chiede di essere un docile contenitore, si chiede di non pensare, di non immaginare, si chiede di tenere l’anima ben fuori dal suo corpo, di non immaginare quel bambino che la occupa e la consuma e che non sarà mai suo. A cosa deve pensare, a cosa può pensare una donna che sta portando a termine una gravidanza per altri? Forse resterebbe utile il semplice consiglio che la vecchia prostituta dà alla giovane “Pensa di essere un’altra, pensa che non sei tu” E’ un invito ad una schizofrenia amichevole, un gioco assai pericoloso. Oppure può pensare ai soldi che riceverà per questo suo “lavoro”. Ad una pratica simile, infatti ci si presta per bisogno, per assoluta necessità.

Non riesco vedere libertà in una pratica del genere. Il lavoro che non permette di pensare è quello che abbiamo sempre considerato “lavoro alienato”, “lavoro alienante”, il più terribile sfruttamento, un esproprio della dignità della persona. Questo abbiamo pensato per il lavoro in fabbrica, per l’operaio alla catena che non deve pensare ma solo eseguire.

Mi chiedo perché non si riconosce nella gravidanza per altri lo sfruttamento, la perdita di dignità, perché per questa donna, che si trova ad affrontare un’esperienza così espropriante, non si provi la stessa pena che io ragazza borghese cattolica provavo verso le ingiustizie, le condizioni disuguali, la miseria, il lavoro disumano dei corpi, quella pena che mi hai fatto diventare comunista. Sì, a farmi diventare comunista è stata soprattutto quella pena, non tanto il pensiero della giustizia sociale. Perché non si prova pena per lei, che fabbrica un figlio che non sarà suo, che le sarà sottratto appena nato, che molto probabilmente non rivedrà più, un figlio, perché tale è chi esce piangendo dal corpo di una donna, che l’ha occupata per nove mesi nel vuoto del pensiero e dell’immaginazione? Perché per lei non si prova pena? Forse sono i soldi che riceverà che la salveranno? Che ci salveranno? Sono quei soldi che ci dovrebbero mettere tranquille? pensando che lei sarà contenta? Ma anche alcuni di quegli operai alla catena, consumati da un lavoro ripetitivo e pesante che sciupa corpo e anima, a cui è difficile trovare un senso, avranno benedetto quel loro lavoro che permetteva la sopravvivenza alle loro famiglie. Così quando mi assicurano che la gravidanza per altri è un lavoro come un altro, regolato da un contratto e mi raccontano la felicità di tutti quelli che partecipano a questo evento, non mi libero dalla necessità di lottare perché questo non succeda più, perché nessuna donna debba mettere l’anima tacere e farsi vuoto, farsi macchina, farsi contenitore, scatola, recipiente. Ed è così che la pena si fa politica.

Mi chiedo come mai persone a cui sta tanto a cuore la giustizia sociale si facciano “liberisti” solo con il corpo delle donne. Quello sì, si può vendere, affittare dare in comodato d’uso, prestare. Ricordiamoci che intorno a questo lavoro c’è un giro di miliardi, perché il mondo del malaffare, la mafia chiamatela come volete, al momento sta calcolando se conviene di più mettere una ragazza nel giro della prostituzione o in quello della gestazione. Questo è il calcolo: cosa è più conveniente? cosa fa più soldi?

Per chiudere voglio proporre una visione. Vi ricordate le balie da latte? Erano giovani donne che lasciavano i loro piccoli per dare il latte ai figli dei signori. Oggi non esistono più, oggi questa pratica, diciamocelo in un certo senso ci ripugna perché la coscienza sociale è indubbiamente maturata. A regolare quel rapporto anche lì c’era un contratto. Oltre lo stipendio la balia doveva ricevere ogni anno un pezzo d’oro o di corallo e il suo guardaroba doveva essere rinnovato. Si doveva rinnovare la sua gonna, che doveva essere di flanella d’inverno e di cotone d’estate, questa gonna doveva misurare esattamente 7 metri. Con questa stoffa la balia garantiva ai suoi piccoli di che vestirsi. È molto interessante il contratto del baliatico, ma che effetto fa oggi ai nostri occhi?

E adesso una visione distopica. Guardate che la gravidanza per altri converrebbe proprio a noi donne, a noi donne in carriera e benestanti, non a tutte, sia chiaro, noi donne che abbiamo poco tempo e ci dobbiamo muovere molto e viaggiare spesso. Quindi vi invito a immaginarvi questa scena. La donna della nostra visione è una manager o una notaia o una avvocata, magari un’economista , che non vuole rinunciare ad avere una famiglia. La intercettiamo al rientro dal lavoro la sera e come ha lasciato i suoi bambini nelle mani di una tata fidata, ha lasciato anche il suo ovulo fecondato nella pancia di una giovane ragazza che anche lei è lì ad accoglierla. La donna le si rivolge con affetto e poi ai suoi figli potrebbe dire “Vedete, bambini, nella pancia di Maria sta crescendo il vostro fratellino.” I bambini felici, forse anche loro sono stati dentro Maria, chissà. Tutti nella scena sorridono.
Questo potrebbe succedere in un mondo dove ancora esistono serve e servi. Ma è questo il mondo che vogliamo?

Non è con un contratto che spariranno serve e servi, questo l’abbiamo capito ma con una rivoluzione, non quelle facili e cruente che servono a sostituire una classe sociale ad un’altra, ma una difficile e lenta che ha lo scopo di cambiare una civiltà. Per me è la rivoluzione femminista. Chissà quante generazioni saranno necessarie per portarla a termine e quanta fatica per renderla inesorabile. 

Alessandra Bocchetti

Relazione svolta  il 25 Novembre 2019 nell'Aula Consiliare del Comune di Roma nel corso del Convegno "DALL’ETICA ALL’ANAGRAFE - Dal ruolo della donna al problema burocratico nella Gestazione per Altri (G.p.A.)" 

18 gennaio 2020