In ricordo di Miriam Mafai, di Valeria Fedeli

Ci manca Miriam, e la continuiamo a cercare nei suoi scritti, nei ricordi che ci ha lasciato, e ora anche tra le strade di Roma, dove magari passeggiando potrà sembrare di ascoltare di nuovo quella sua risata che tanto ci manca e che tanto oggi servirebbe: una risata unica, contagiosa, capace di smorzare la tensione, di trasmettere calore, di infondere ottimismo.


Dieci anni fa ci lasciava Miriam Mafai, donna straordinaria che è stata di ispirazione a tante e tanti di noi, e che dobbiamo in ogni modo possibile ricordare e far conoscere anche ai e alle più giovani.

Ho molto apprezzato, in questo senso, la scelta del sindaco Gualtieri e di Roma Capitale di dedicare a Miriam un viale di Villa Pamphili, con una scelta di toponomastica grazie alla quale un’esperienza di memoria diventa perenne quotidianità.
La toponomastica svolge una funzione simbolica molto importante, ed è uno dei terreni su cui si declina la battaglia per la parità di genere - ne sarebbe convinta Miriam per prima.

È una questione di riconoscimento: ricordare in modo adeguato donne che hanno lasciato il segno significa fare esercizio culturale di giustizia. Riconoscere l'altro, l'altra, il ruolo e il valore di ogni persona, è inoltre un passo necessario per riconoscere se stessi, la propria identità. Una collettività capace di riconoscere le singole esistenze femminili che hanno contribuito a farla crescere è capace allora di riconoscere meglio se stessa e di essere perciò all'altezza di ogni sfida e ogni cambiamento.

“Dare nomi” al territorio in cui viviamo significa così renderlo una memoria diffusa della società e della storia, una guida per ricordare sempre chi siamo e grazie a quali donne e quali uomini lo siamo diventati.
E sappiamo bene - oggi in modo particolare - quanto la storia sia importante per comprendere il presente, quanto la conoscenza delle dinamiche sociali, politiche e umane del passato aiuti a fare luce sull'oggi e sulle sfide che affrontiamo, per cogliere le ispirazioni giuste per evitare di ripetere errori e costruire un futuro di libertà e uguaglianza.
E Miriam Mafai - chiunque l’abbia incontrata anche solo pochi minuti potrebbe confermarlo - è certamente stata un’ispirazione.

Miriam è stata una grande giornalista, una grande intellettuale, un riferimento politico, una donna che con intelligenza, passione e forza d’animo ha saputo essere un modello per tante e tanti di noi.
In questi dieci anni - anni di cambiamenti profondi come mai avremmo potuto anche solo immaginare - ci sono mancati il suo spirito critico, la sua capacità di cogliere in modo originale i cambiamenti sociali e politici, il suo coraggio e la sua determinazione, la sua capacità di stare dentro il paese reale, a contatto con le persone che ogni giorno affrontano difficoltà e gioie, battaglie e scelte.

Dall’esperienza della resistenza a quella di funzionario del PCI, poi la carriera giornalistica, dall’Unità a Paese Sera fino alla fondazione di Repubblica, ancora il femminismo e le battaglie civili e democratiche, da quelle degli anni ’70 a quelle di questo inizio secolo, con in mezzo l’esperienza di Parlamentare negli anni ’90: Miriam ha attraversato davvero tutte le fasi e tutti i momenti decisivi della nostra storia recente, mostrando quella lucidità, quella passione e quella umanità che sono tipiche solo di poche grandi donne.

E tutto questo ce l’ha raccontato, e nelle sue parole è sempre stato facile ritrovarsi.
D’alta parte se leggiamo come lei stessa descriveva le doti necessarie per esercitare bene il mestiere di giornalista cogliamo dimensioni di sguardo politico, di empatia, di interesse profondo a capire e raccontare: serve - scrive ne Il giornalista, saggio del 1986 “una grande curiosità per le persone e i fatti, l'attitudine a cogliere subito gli elementi essenziali di una situazione e insieme tutti i suoi particolari, la rapidità di apprendimento, di comprensione e di giudizio, una notevole sicurezza di sé, la capacità di ispirare fiducia e stabilire legami, una naturale tendenza alla produttiva superficialità (sapersi appassionare ad un argomento per breve tempo, scriverne e dimenticarlo subito dopo)”.

Miriam d’altra parte era una donna attenta agli altri, interessata ai cambiamenti e alle sfumature con cui il mondo si presenta, rigorosa nel ragionare e nell’indagare le condizioni di vita delle persone, i costumi sociali, le sfide per cambiare.
Non stupisce quindi una delle sue battute più famose: «Tra un weekend con Pajetta e un'inchiesta, io preferirò sempre, deciderò sempre, per la seconda».

Il suo è stato un esempio di giornalismo e di impegno politico serio, pragmatico, lontano da ogni convincimento ideologico: pur avendo conosciuto e praticato i grandi partiti di massa e le fortissime idealità che ispirano la politica, è sempre rimasta una mente ed una voce libera, attenta a cogliere i cambiamenti grandi e piccoli della società e a confrontarsi con essi, per capirli e contribuire a governarli, con l’attenzione sempre proiettata al futuro del paese e delle giovani generazioni.

Sapendo sempre riconoscere la sostanza buona delle cose, delle dinamiche politiche, dei partiti. In Botteghe oscure, addio. Come eravamo comunisti (1996), ha descritto molto bene l’eredità che il PCI aveva lasciato alle formazioni politiche che sono seguite, un’eredità che - per riprendere le sue parole - era “un patrimonio politico, morale e culturale che sopravvive, come sopravvive il desiderio di rifiutare l'ingiustizia, di difendere i deboli, di cambiare, se non il mondo, almeno la nazione in cui viviamo, o magari soltanto la nostra città o il nostro quartiere. [Una eredità] non tanto povera, non tanto piccola, affidata a coloro che lasciano le Botteghe Oscure per costruire la nuova casa”.

Miriam ha insegnato, con affetto e severità tipiche dell’impegno politico della sua generazione, a tante donne più giovani a non temere e anzi sfidare le difficoltà di un mondo troppo maschile, facendo sentire la forza delle competenze e delle energie femminili, una forza davvero capace di essere dirompente quando unitaria, decisa, concreta.
Perché, come diceva spesso, “come donne nessuno ci ha mai regalato niente”.

E le donne le ha raccontate, fin da Pane nero. Donne e vita quotidiana nella seconda guerra mondiale (1987), in cui descrive come dal punto di vista femminile si vive un grande cambiamento, con la guerra che “era stata sempre, nei tempi moderni, una storia di soldati, una storia tutta di uomini, uomini che uccidono e uomini che muoiono, uomini che si sfidano, uomini che resistono. E invece adesso, in questo 1944, diventa più che mai una storia di donne e di bambini.”

E vivere questa storia cambia le donne italiane, molte delle quali a distanza di anni, ricordando la Resistenza, dicevano “però in fondo è stato bello”. Perché “ognuna di loro dovette imparare in quegli anni a decidere da sola, senza l’aiuto né la tutela di padri, mariti, fidanzati. Ognuna divenne, nel pericolo e nella miseria, più padrona di se stessa.” Le donne scoprivano di essere un soggetto forte ed emancipato e un potenziale per la società e la futura democrazia italiana.

E al rapporto tra donne e politica Miriam ha dedicato altre pagine, oltre che tante riflessioni, conversazioni, consigli. «Ci furono fin dall'inizio due modi diversi di fare politica - scriveva in Apprendistato della politica (1979) - e il secondo (l'intervento nella dimensione quotidiana dell’esistenza) fu certo patrimonio delle donne, che vi si impegnarono con una concreta, quasi avida volontà di fare di soccorrere di organizzare, con uno slancio e una passione che le videro protagoniste di un movimento di solidarietà quale non si è più manifestato nel nostro paese. Fu questo il primo modo specifico in cui le donne si presentarono sulla scena politica nazionale».

Voglio ricordare, a ulteriore conferma della capacità di Miriam di “far vedere” quello di cui scriveva, senza bisogno di ricorrere a toni enfatici o didascalici, due scritti del 1987, relativi alla rappresentanza di genere, che vale la pena rileggere anche per la loro attualità. Il primo è un articolo dedicato a Nilde Iotti, allora Presidente della Camera nonché prima donna italiana a ricoprire quell’incarico, che aveva appena ricevuto un incarico di governo con mandato esplorativo da parte del Presidente della Repubblica Cossiga; era non solo la prima donna, ma anche la prima comunista a sfiorare la Presidenza del Consiglio. [http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1987/03/29/il-primo-giorno-da-esploratrice.html?ref=search]

Il secondo, invece, è un piccolo reportage sul record di donne elette quell’anno in Parlamento anche grazie alla campagna “donna vota donna” voluta dalle dirigenti del PCI. [http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1987/06/18/record-di-donne-tante-comuniste-in-sezione.html?ref=search]

Sono due scritti del tutto privi di trionfalismo o di retorica, che presentano semplicemente il racconto di altrettante “prime volte” delle donne italiane con lo stile asciutto e saldamente ancorato ai fatti di cui Miriam era maestra, e grazie al quale sapeva rendere pienamente il senso degli eventi.

Accanto alla schiettezza e all’apparente severità che l’hanno sempre contraddistinta, Miriam ha sempre conservato una dolcezza e una leggerezza che sono state uno dei tratti principali della sua forza. Con lei anche essere rimproverati, anche i momenti in cui la discussione portava ad esporsi al suo giudizio, un giudizio duro specie con gli amici, diventavano momenti utili e piacevoli: sapere, capire, imparare, condividere sono state sempre le priorità del suo pensare e del suo agire, e sono l’insegnamento che ci ha trasmesso e lasciato.

Ci manca Miriam, e la continuiamo a cercare nei suoi scritti, nei ricordi che ci ha lasciato, e ora anche tra le strade di Roma, dove magari passeggiando potrà sembrare di ascoltare di nuovo quella sua risata che tanto ci manca e che tanto oggi servirebbe: una risata unica, contagiosa, capace di smorzare la tensione, di trasmettere calore, di infondere ottimismo.

Valeria Fedeli