Sul lavoro femminile bisogna dire la verità, di Grazia Labate

L’ostacolo principale, messo in evidenza da numerose analisi economiche e socio statistiche è la conciliazione dei ruoli. Maternità e lavoro appare sempre più come il prolungamento della maledizione biblica del “partorirai con dolore. Se ci sono figli o anziani da assistere rimaniamo intrappolate a casa.


Si sta aprendo, perlomeno a livello istituzionale, una ambigua discussione.
Maggiori ingressi di immigrati o piccoli flussi e di fatto bloccarli, per incentivare il lavoro femminile.
La verità spesso nascosta è che si profila un futuro molto incerto per il nostro sistema di Welfare.

Per assicurare il finanziamento del welfare dovremo in realtà fare entrambe le cose.
La nostra Presidente del consiglio , Giorgia Meloni, si è espressa a favore della seconda opzione; opzione che i nostri governi proclamano ad ogni legge di bilancio e che dicono di voler perseguire, ormai da vent’anni, senza molti risultati.

Della serie “Provaci ancora Sam”. Bellissimo film del1972 in cui Sam, critico cinematografico appassionato di Bogart, è abbandonato dalla moglie. Una coppia di amici lo vorrebbe aiutare a uscire dalla crisi, ma Sam è complessato e imbranato. Seguendo i consigli del fantasma di Bogart tenta di conquistare l'unica donna che gli sta veramente a cuore.

Ma non ci riesce. Vedremo che saprà fare la prima premier donna del nostro paese.
In Italia lavorano 55 donne su 100 nella fascia d’età 20-54. Altre 15 vorrebbero trovare occupazione, ma non riescono. In parte mancano posti di lavoro congrui rispetto alle competenze, nell’area di residenza (c’è la famiglia).

L’ostacolo principale, messo in evidenza da numerose analisi economiche e socio statistiche è la conciliazione dei ruoli. Maternità e lavoro appare sempre più come il prolungamento della maledizione biblica del “partorirai con dolore. Se ci sono figli o anziani da assistere rimaniamo intrappolate a casa.
Ma la famiglia monoreddito fa fatica a quadrare i conti, e allora anche di figli se ne fanno pochi, uno o al massimo due. Il New York Times, ha recentemente sottolineato che con la nostra denatalità l’Italia rischia di sparire.

Superare l’ostacolo non è facile. Altri Paesi ci sono riusciti?

“ La Svezia è il caso di maggior successo. Per incentivare il lavoro femminile e insieme la natalità, ha messo in piedi un sistema pubblico di conciliazione che a ben vedere qui da noi sarebbe un sogno. Vale la pena di ricordarne i principali strumenti. Tenendo presente che loro hanno prodotto, sì, un’elevata occupazione femminile, ma non certo un aumento della popolazione. Più semplicemente, hanno consentito di mantenere il tasso di natalità intorno al 2,1 figli per donna, il minimo indispensabile per non decrescere. Fin dal 1974, i padri svedesi hanno gli stessi diritti delle madri; oggi quasi la metà di loro sceglie di stare a casa per accudire i neonati. Il congedo retribuito è previsto per tutti i cittadini (è a somma fissa per chi non ha un lavoro dipendente). Inizialmente pari a sei mesi, la durata è stata elevata prima a 9, poi a 12, 15 e oggi è di 16 mesi indennizzati. Esaurito il congedo, i neo-genitori hanno il diritto di chiedere il part-time, se lo desiderano.

Fino a che un figlio compie 12 anni, ci si può assentare dal lavoro per 60 giorni all’anno, anche se si ammala la baby sitter. Praticamente tutti i bambini (il 100% nel caso dei lavoratori dipendenti) trova posto al nido. Solo i più benestanti devono pagare un ticket.
I giovani fino a 29 anni con almeno un figlio hanno poi diritto a una indennità che copre circa la metà dell’affitto. Ma non è tutto. Per incentivare le nascite dopo la prima, lo Stato paga un «premio velocità» per chi fa un altro figlio entro 24 mesi dal precedente: il genitore non deve tornare al lavoro nel periodo fra il primo e il secondo congedo. Ora l’intervallo è salito a 30 mesi.

Si calcola che tali misure abbiano contribuito a far salire la doppia natalità (due figli entro 30 mesi) dal 30% al 45% delle madri. Grazie a questo sistema, dagli anni Settanta a oggi l’occupazione femminile è salita dal 50% all’85% di oggi (sull’insieme di donne fra i 25 e i 54 anni), una quota appena al di sotto di quella degli uomini nella stessa fascia di età. Fra le donne con figli la percentuale scende, ma di poco: 78%. In Italia, i valori sono entrambi più bassi di venti punti. Si tenga presente che molte donne svedesi hanno trovato lavoro proprio nei servizi pubblici (e un po’ anche privati) che sono indispensabili per sostenere un modello di famiglia in cui entrambi i partner lavorano.

Tutto questo ha ovviamente un costo. La Svezia spende quasi il 3% del Pil per infanzia e famiglia, l’Italia meno della metà. In compenso, noi spendiamo il 18,4% per la vecchiaia, la Svezia il 12,9. Il totale della spesa sociale sul Pil è ormai uguale fra i due Paesi. Qualcuno ricorderà uno slogan degli anni Novanta: più ai figli, meno ai padri. Avremmo fatto bene a seguire il consiglio. Oggi mancano figlie e figli, diminuiscono padri e madri e cresce il numero di anziane e anziani soli. Il confronto con la Svezia ci fa capire l’enormità della sfida che dobbiamo fronteggiare (nonché la irresponsabilità di tutti i governi succedutisi nel tempo). Il problema è che oggi sarebbe irrealistico proporsi di copiare il modello svedese, costerebbe troppo. Potremmo però almeno guardare alla Spagna.

Lì il governo ha recentemente approvato un Piano significativamente chiamato Corresponsables (la natalità e il lavoro sono responsabilità di tutti), il cui obiettivo è sostenere la conciliazione e creare nuova occupazione di qualità nei territori, anche coinvolgendo il Terzo Settore. In Spagna lavorano molte più donne che in Italia e la loro quota è cresciuta più rapidamente, anche fra le madri. Al Governo Meloni è opportuno a questo punto chiedere tre cose. Primo, dare seguito alle dichiarazioni di intenti. Secondo, non fissarsi su una sola idea (come la detrazione di 10 mila euro per ogni figlio) senza averne prima approfondito le conseguenze e senza aver studiato bene l’esperienza degli altri Paesi. Terzo, non illudersi che immigrazione e occupazione femminile siano fra loro alternative, perché sono complementari. In presenza di un problema molto serio, prendere decisioni che non guardino al lungo periodo basate su presupposti sbagliati può essere peggio che non decidere affatto”.

Queste considerazioni le ha fatte recentemente il Prof. Maurizio Ferrera in un bellissimo articolo pubblicato sul Corriere della sera del 22 aprile ultimo scorso di cui riprendo il virgolettato. A ben vedere i dati statistici che descrivono l’occupazione femminile in Europa e come l’Unione incide sul fronte della conciliazione sia attraverso misure legislative, in primo luogo con la Direttiva UE 2019/1158, che regola congedi e lavoro flessibile, che con misure non legislative, l’Italia è indietro. Da un analisi sulla situazione occupazionale femminile nell’Unione Europea e su come l’azione UE incide in tale ambito, cioè da una un’analisi dell’employment gender gap è possibile osservare le diseguaglianze tra i Paesi, le quali sono accentuate anche da una eterogenità di politiche di conciliazione (quali congedi, politiche di regolazione dei tempi di lavoro, trasferimenti monetari e sussidi per le famiglia, servizi di cura).

Cosa prevede la direttiva UE?
La 2019/1158 oltre che disposizioni in termini di congedo di paternità, parentale e per i prestatori di assistenza, prevede disposizioni che permettono di richiedere modalità di lavoro flessibili ai tutori e ai genitori che lavorano per bambini fino a otto anni, una serie di misure non legislative volte a: incoraggiare l’uso di fondi europei per migliorare la fornitura di servizi di cura e assistenza; garantire la protezione dei genitori contro la discriminazione o il licenziamento; rimuovere i disincentivi economici per i secondi redditi all’interno delle famiglie.

In Italia lavorano 55 donne su 100 nella fascia d’età 20-54. Almeno altre 15 vorrebbero ma non riescono. Anche i recenti dati CONSOB ci dicono che:
"emerge la crescita della diversità di genere, che a fine 2022, vede attestarsi al 43% la quota degli incarichi di amministratore delle società quotate, esercitata da una donna, per effetto dell'applicazione della quota di genere dei due quinti dell'organo prevista dalla legge". Ma ancora poche le donne ai vertici: 2% degli amministratori delegati e 4% di Presidenti.

"In linea con le tendenze osservate negli anni precedenti, a fine 2022, le donne ricoprono il ruolo di amministratore delegato in 17 società di piccole dimensioni (rappresentative del 2,1% della capitalizzazione di mercato) e presiedono l'organo amministrativo di 32 emittenti di più elevate dimensioni (rappresentativi del27,4% della capitalizzazione complessiva)", si legge nel rapporto.

I dati confermano anche che le donne sono titolari di più di un incarico di amministrazione con maggior frequenza rispetto agli uomini: tale situazione riguarda il 28,6% delle donne, rispetto al 21% dell'intera popolazione degli amministratori. Come si vede, nonostante i progressi, il soffitto di cristallo resiste e non riesce ad infrangersi del tutto. Il cammino è faticoso ma le donne italiane ce la possono fare?

Sono convinta di si, se e solo se, aprono un conflitto con proposte concrete e una vertenza con il governo in primis e culturalmente nella società, che maternità e lavoro devono poter essere conciliate. Chi in questo momento ha la maggioranza della guida del paese deve far seguire alle parole i fatti, sennò il premierato femminile rischia di essere solo di facciata ed una occasione perduta.

Grazia Labate

Ricercatrice in economia sanitaria già sottosegretaria alla sanità

04 maggio 2023