Il 2 giugno e le Madri Costituenti, di Andrea Catizone

Era il 2 giugno del 1946 quando le italiane, per la prima volta, e gli italiani vennero chiamati alle urne in seguito all’indizione del referendum per determinare la forma di Stato da dare all’Italia dopo la fine della seconda guerra mondiale. 


Furono 13 milioni le donne e 12 milioni gli uomini votanti, con una percentuale dell’89,08% degli aventi diritto al voto, e bocciarono la monarchia. La Repubblica era nata ed aveva il volto delle donne con l’immagine sulla scheda elettorale dell’Italia turrita. Mia nonna andò a votare, mentre la mia mamma aveva solo sei anni e veniva portata alle urne per mano; un’immagine che fa venire i brividi per la sua prossimità con il presente, ma al contempo lontana nel tempo e per la forza evocativa di contenere, in quello spazio tra ieri ed oggi, un lungo elenco di conquiste che forse allora erano solo sognate. 

Alla fine del ventesimo secolo si può dire che il principio di uguaglianza tra uomo e donna era stato acquisito da molti Paesi nel mondo occidentale, benché il portato di principi provenienti dalla gloriosa Rivoluzione Francese avesse per lo più sancito l’esclusione delle donne dalla vita politica e pubblica -anche peggio dell’Ancien Régime – pur ponendo le basi di un riconoscimento di diritti non più legati ai beni, ma ai soggetti e dunque anche in potenza all’ingresso nel mondo politico dei diritti per le donne, come il diritto di voto.

Il percorso di emancipazione delle donne si è sempre svolto su due traiettorie definite: il riconoscimento di quelli che vengono chiamati diritti civili e politici e l’affermazione dei diritti di uguaglianza delle donne all’interno delle famiglie e dunque del codice civile.

Il primo si sviluppa appunto a partire dal 1945 il secondo a partire dalla fine degli anni ’60. Di quest’ultimo aspetto normalmente si parla in tono minore, come se fosse quasi secondario, mentre gli altisonanti diritti afferenti alla vita pubblica occupano quasi l’intero dibattito politico anche da parte delle donne.

A capire da subito l’importanza di scardinare l’impianto giuridico sottostante il codice civile napoleonico, che imperniava tutta la tradizione civilista dei Paesi occidentali compresa l’Italia, è stata la Presidente Nilde Iotti: il suo lavoro legislativo e politico si è concentrato primariamente sulla riforma del diritto di famiglia.

La famiglia per il legislatore italiano era ancora quella società basata su una conclamata divisione dei ruoli tra marito e moglie nella coppia, in cui il primo prevaleva sulla seconda e su tutta l’intera compagine familiare; in cui l’indissolubilità del matrimonio incideva sulla libertà degli individui; in cui il regime successorio e di proprietà tra i coniugi rispondeva da una visione diseguale dei diritti, tutti a scapito della donna. La Iotti capì subito con intelligenza profonda che dall’uguaglianza tra uomo e donna nella società sancita in Costituzione occorreva passare all’uguaglianza tra marito e moglie nella famiglia e nel loro rapporto con i figli.

Occorreva avviare quel processo di decolonizzazione della donna anche per le norme civilistiche, e perciò smontare l’impianto gerarchico del matrimonio sul marito, padre, capofamiglia indirizzandosi verso una forma di diarchia in cui i diritti dovevano essere esercitati in ugual misura tra uomo e donna, tra marito e moglie, tra padre e madre. Un duplice processo che metteva il principio di uguaglianza dentro un sistema di relazioni private sulla soglia delle quali lo Stato aveva smesso di esserne, per lungo tempo e in alcuni casi fino ad oggi, il garante.

Un percorso molto complesso da realizzarsi per le implicazioni, non solo giuridiche, che esso comportava e per la presenza di massicce influenze di vario tipo che su questa materia venivano esercitate. Le donne intanto erano entrate nel mondo sociale, ed in Italia nelle fabbriche e negli uffici, mettendo in atto una delle più importanti forme di emancipazione femminile che ci fosse mai stata: lo svolgimento di un’attività lavorativa.

Nilde Iotti, componente della Commissione Giustizia della Camera e del Comitato ristretto incaricato di predisporre un testo unificato delle proposte di riforma del diritto di famiglia – la C. n. 503 dell l’11 ottobre 1968 di Oronzo Reale – presenta la proposta n. 1378 successivamente discussa nella seduta generale del 23 giugno successivo. Epica è la discussione che avviene in quella seduta e nelle successive per l’importanza e la natura delle argomentazioni, ma anche per il garbo istituzionale e per l’evidenza di un grande, approfondito, intenso lavoro trasversale che veniva svolto dall’allora deputata Iotti e dalle sue colleghe di partito e di Parlamento, pur partendo da posizioni diverse.

Basta rileggere gli interventi in Commissione per rendersi conto che era chiara la consapevolezza che su quel terreno si determinava il ruolo della donna e il riconoscimento dei suoi diritti, poi definiti, fondamentali e che era necessario espungere dal sistema normativo una serie di previsioni ed evitarne l’ingresso di altre che avrebbero resa diseguale la vita coniugale dentro la famiglia. Oltre alla battaglia per la cancellazione dell’indissolubilità del matrimonio, che per la Iotti era da riconoscere senza introdurre l’elemento della colpa, era nei rapporti tra i coniugi dentro la famiglia e verso i figli che si manifestava la più ardita e tenace attività della Iotti e delle altre donne democristiane e di altre provenienze politiche tutte accomunate da un interesse fortissimo verso la famiglia ed il ruolo della donna al suo interno.

Il primo dicembre 1971 nella dichiarazione finale di voto sul provvedimento Nilde Iotti enuncia le motivazioni per le quali il gruppo comunista che lei rappresenta vota a favore del provvedimento in discussione. Fa venire i brividi quel discorso per chi oggi maneggia tutti i giorni le norme sul diritto di famiglia e lotta per i diritti delle donne e dei minori, che hanno un legame fortissimo tra di loro. Il voto favorevole viene motivato con queste ragioni: “Innanzitutto la parità tra i coniugi, per cui oggi la famiglia viene considerata come un’assunzione di responsabilità comune o solidale fra i coniugi; si tratta per noi di un criterio profondamente innovativo del regime dell’istituto familiare”.

La Iotti manifesta approvazione anche per l’abolizione del concetto di colpa e di riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio, la cui equiparazione completa dovrà purtroppo attendere poi molti anni, e conclude affermando che finalmente “il legislatore non considera più la famiglia come un contratto tra due persone, ma come un’entità animata dalla solidarietà dei suoi componenti. A mio avviso questo comportamento dimostra che si è capita la complessa dinamica del mondo nel quale viviamo”. Con queste parole termina il suo intervento ringraziando tutte le forze politiche che hanno fatto uno sforzo per giungere ad un obiettivo condiviso.

Un modo di fare politica che ci manca e che oggi vogliamo celebrare ricordando le Madri Costituenti che hanno permesso alla legislazione ordinaria di rendere migliore la vita delle donne. La strada, purtroppo è ancora molto lunga.

Avv. Andrea R. Catizone
Presidente
Associazione Family Smile